Le gioie del matrimonio (seconda parte)

La sua rabbia si fece più profonda e diventò rosso fino alla furia. Soffocava. Era balzato dalla sedia con il tovagliolo in mano. Lo stringeva ancora. Ora lo appallottolò e lo scagliò al centro del tavolo, dove colpì una zuccheriera, ricadde all’indietro e si distese lentamente, con aria di rimprovero. “Tu… tu…”

Poi, lo smarrimento lo riprese e poggiò come una nebbia sul suo volto. “Ma perché? Non riesco a capire…”
“Perché… perché non ce la faccio più. Sbatti le ali. Questo è quello che fai. Così.” E lei riprodusse lo stesso gesto. Lo fece con fedeltà offensiva, come un mimo.
“Beh, tutto quello che posso dire è che sei pazza, se gridi così, per niente.”
“Non lo è, eh? Cosa intendi quando dici che strillo come una maniaca?
“Come una donna selvaggia? I vicini penseranno che ti ho ucciso.”
“E chi se ne importa. Voglio dire, sono stanca di guardarlo, ecco cosa. Sono assolutamente stanca.”
“Sì, eh? Bene, signora Identici, lascia che ti dica una cosa…”

Seguì uno di quegli incredibili litigi, tanto disgustosi quanto umani, che possono aver luogo solo tra due persone che si amano, che si amano tanto che ciascuno conosce con crudele certezza il modo più sicuro per ferire l’altro e che artigliano e pugnalano questi punti vulnerabili in proporzione esatta al loro amore.
Volarono brutte parole, parole amare, parole che nessuno dei due sapeva di conoscere: furono come scintille tra l’acciaio di una spada che colpisce e l’acciaio dell’altra che è colpita.

“Il problema con te è che non hai abbastanza da fare. Questo è il problema con metà di voi donne. Ve ne state lì a marcire. Niente da fare…”
“Suppongo che tu chiami lavoro lo stare seduto nelle ‘hall’ degli ‘hotel’! Suppongo che la casa si gestisca da sola! E le mie serate? Seduta qui da solo, notte dopo notte, quando sei in viaggio.”
“Beh, se non ti piace,” ringhiò e sollevò la sedia per lo schienale e la fece sbattere giù, selvaggiamente, “se non ti piace, perché non esci anche tu?”
E lei, i suoi occhi ridotti a due fessure, le sue guance scarlatte, urlò: “Grazie. Immagino che lo farò.”

Dieci minuti dopo, Giuseppe era uscito di casa per prendere il treno delle 8:19 per Domegliara Terme. Marciò lungo la strada, le sue spalle oscillavano ritmicamente sotto il peso del fardello che portava: la sua borsa di pelle nera e la lucida valigetta marrone chiaro, segnate entrambe dalla battaglia di molti incontri con facchini spietati, uomini d’affari incuranti e fattorini disattenti. Per quattro anni, quando partiva per il suo viaggio semestrale, lui e Annamaria avevano osservato una certa piccola cerimonia (così come facevano i loro curiosi vicini). Lei stava sulla soglia, a guardarlo lungo la strada, con la valigetta più pesante che di tanto in tanto gli sbatteva contro lo stinco. Il deposito era a soli tre isolati di distanza. Annamaria lo guardava con occhi affettuosi, ma disillusi, il che dimostrava che lo amava davvero. Era un uomo grasso, azzimato e ben vestito, con un debole per i modelli pronunciati negli abiti. Una settimana in viaggio, una settimana a casa: quella era la sua “routine”. Il commercio all’ingrosso di generi alimentari piaceva a Identici e lui aveva per i suoi clienti l’affetto che ha un venditore ambulante che ha successo nel suo territorio. Prima del suo matrimonio con Annamaria Barale, la sua piccola rubrica rossa era stata la prova schiacciante che la teoria secondo cui nessuno ama un uomo grasso era una bufala.

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