Le gioie del matrimonio (parte quattordicesima)

“Le donne sono così. Una sera – stavamo giocando a carte; anzi, no, lo ricordo chiaramente – stavamo cenando prima dello spettacolo e mio marito ha preso una di quelle grandi pannocchie gialle, l’ha imburrata e salata e io non facevo che aggrapparmi al bordo del tavolo con le mie unghie. Mi sembrava che, se avesse chiuso gli occhi, quando avesse messo i denti su quella spiga, avrei urlato. E lo ha fatto. E io ho urlato. E questo è tutto.”
Annamaria sedeva, fissandola con gli occhi spalancati, come un sonnambulo. Poi si bagnò le labbra lentamente. “Ma questo è…”


“Ragazza, torna a casa. Non so se è troppo tardi o no, ma va’ lo stesso. Se l’hai perso, suppongo che non sia più di quanto meriti; ma spero Dio che tu non lo perda. Lui ha quasi finito. Se ti vede andare ora, non può smettere nel mezzo della sua canzone per fermarti. Saprà che ti ho messo sulla strada giusta e probabilmente mi ucciderà per questo. Ma ne vale la pena. Vai via.”

E Annamaria – stordita, tremante, ma grata – fuggì. Lungo il corridoio rumoroso, su per le scale, in strada, tornò alla sua pensione. Di nuovo fuori, con la sua valigia, e in qualche modo alla stazione ferroviaria giusta, finalmente, se ne andò. Non c’era un altro treno per San Donato fino a mezzanotte. Si rannicchiò in un angolo remoto della sala d’attesa fino a mezzanotte, osservando gli ingressi degli altri clienti come una bambina che ha paura dei fantasmi nella notte.
Le lancette dell’orologio della stazione sembravano fisse e immobili. L’ora tra le undici e le dodici era interminabile. Era sul treno. Era quasi mattina. Era mattina. Stava spuntando l’alba. Era a casa! Aveva la chiave di casa stretta in mano molto prima di girare l’angolo degli Schimberni. Supponiamo che lui fosse tornato a casa! Supponiamo che lui avesse lasciato una città e fosse tornato a casa prima del previsto.

Arrivò sui gradini davanti alla casa. Non c’era un suono. Rimase lì un momento nella penombra del primo mattino. Sbirciò nella sala da pranzo. Il tavolo, con gli avanzi della colazione, era come l’aveva lasciato. In cucina la caffettiera era sul fornello a gas. Era a casa. Era al sicuro. Corse su per le scale, si tolse i vestiti e indossò la veste mattutina a quadretti. Spalancò le finestre ovunque. Al piano di sotto, ancora di più si tuffò in un’orgia di pulizia. Stoviglie, tavola, fornello, pavimento, tappeti. Lavò tutto, lo sgrassò, lo lucidò. Alle otto aveva svolto il lavoro che normalmente avrebbe richiesto il tempo fino a mezzogiorno. La casa era splendente, ordinata e odorava di schiuma di sapone.
Durante tutto questo tempo, aveva ascoltato, ascoltato, con il suo orecchio inconscio. Ascoltava qualcosa che si era rifiutata di nominare con certezza nella sua mente, ma ascoltava lo stesso; era in attesa.
E poi, alle otto, era arrivato. Il tintinnio di una chiave nella serratura. Il frastuono della porta d’ingresso. Passi decisi.
Non le andò incontro e lei non gli andò incontro. Si erano semplicemente riuniti ed erano l’uno nelle braccia dell’altra. Stava piangendo.

“Su, su, vecchia mia. Che c’è da piangere? Non farlo, tesoro; non farlo. Va tutto bene.” Poi alzò la testa, per guardarlo. Come sembrava fresco, roseo e grosso.
“Come sei arrivato?”
“Non riuscivo a dormire a Trento, così sono rimasto sveglio tutta la notte. Sono dovuto tornare a sistemare le cose con te, Annamaria. Avevo detto… cosa avevo detto…”

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