Amnesia lacunare (seconda parte)

Donna allo specchio - Helmut Newton | Il tuo counselor

La voce sgradevole di un cantante heavy metal interruppe la fase rem del suo ciclo di sonno. Si tirò su nel letto. Per un momento eterno, restò confusa e spaventata. Diede rapidamente un’occhiata a destra, poi a sinistra. Come se una nuvola di ansia fosse stata sollevata dal suo cervello, emise un lento sospiro di sollievo. “Devo aver sognato”, pensò. Il ronzio irritante della radio offese i suoi nervi uditivi. Spense rapidamente l’allarme, facendo tacere la radio. La radiosveglia segnava le otto del mattino. Era perplessa. Non aveva mai impostato la sveglia nei suoi giorni liberi, pensò, e sicuramente non l’avrebbe mai messa su quella stazione. Fece oscillare le sue lunghe gambe oltre il ciglio del letto.

Cercò, poi, una molletta sul comodino. Non c’era. Accese la lampada accanto al letto e si guardò attorno nella camera. Non era da nessuna parte. Non c’erano nemmeno (eppure le teneva sempre a portata di mano, quando andava a letto) la vestaglia e le pantofole. Le trovò in salotto. Le sembrava di aver già vissuto un momento simile: si sentì impotente e rabbrividì. Non era stato un episodio isolato di amnesia lacunare, come aveva tentato di spiegare al dottore il giorno prima.

L’odore amaro del caffè bruciato la colpì. “Oh no”, gemette mentre correva in cucina. Una crosta carbonizzata si era formata sul fondo della caraffa di vetro della caffettiera. Aurora portò l’interruttore in posizione “off”, mentre sollevava la pentola dalla fonte di calore. Istintivamente, si voltò indietro. Una parte di lei si aspettava di vedere qualcun altro nella stanza. Sbirciò nel salotto che era separato dal tinello solo da un lungo bancone. Alcuni fili di luce facevano capolino attraverso le persiane chiuse. Non c’era proprio nessuno. Per quale motivo aveva creduto che nella casa ci fosse stato qualcun altro?

Una lenta suoneria la fece sussultare e le fece cadere la brocca, che si spezzò in mille frammenti sul pavimento. “È il mio cellulare”, urlò. Aurora si prese cura delle schegge di vetro sparse. Con la scopa in una mano e la paletta nell’altra, iniziò il noioso compito di pulizia. Un pezzo piuttosto grande si era incastrato sotto il bordo del frigorifero. Si chinò e lo smosse con impazienza finché non lo liberò. Aurora fissò il vetro e vi vide il riflesso distorto del suo viso. S’accorse d’avere dei tagli sulla punta delle dita; il sangue le scorreva sul palmo della mano, poi sopra una cicatrice orizzontale sul polso. Sollevò il pezzo di vetro macchiato fino ad esporlo alla luce. Rimase per un attimo incantata dal riflesso.

“Stupida cretina!”, si alzò di scatto e gettò il pezzo di vetro nel lavandino. “Odio quella schifezza che bevi! Ora tutto l’appartamento profuma di caffè bruciato!”

Si diresse con cautela fuori dalla cucina e verso il bagno degli ospiti nel corridoio. Accese la luce e mise immediatamente la mano ferita sotto l’acqua corrente. Un liquido color mirtillo schizzava intorno al bordo del lavandino di marmo bianco. Non prestò attenzione al grande coltello da cucina in bella vista, o all’asciugamano insanguinato che era stato usato per pulire la lama. Prese l’asciugamano sporco e si asciugò il sangue dalle dita e dal polso. La cicatrice sul suo polso la faceva infuriare. Quella stupida cretina aveva cercato di farla finita per tutt’e due, pensò mentre rifletteva su quanto era stata vicina a morire. Lentamente, alzò gli occhi dalla mano e guardò l’immagine allo specchio. Gli occhi blu pallido incorniciati da ciglia scure la facevano sembrare così innocente, pensò. Si tolse le pantofole e si strappò di dosso la vestaglia. “Accidenti”, disse arrabbiata, mentre allungava la mano verso la nuca e ne tirava via il fermaglio. I suoi capelli ramati scendevano ora sulle spalle e attorno al suo viso. “Ora è molto meglio”.

Era stata così eccitata ieri quando il dottore aveva messo Aurora sotto ipnosi. Per un anno lei si era rifiutata. Ma il recente peggioramento della sua confusione e la perdita di memoria le avevano fatto cambiare idea. “Aurora mi ha combattuto”, pensò, “ma alla fine ho vinto io”. Ricordava ancora lo sguardo sul viso del dottore quando gli aveva detto: “Ciao, dottore, sono Clelia”.

Rimase ammirata davanti allo specchio fin quando non fu bruscamente interrotta dalla suoneria del cellulare. Toccò l’interruttore sul muro del bagno e con riluttanza ritornò nell’oscurità dei recessi della mente di Aurora.

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