Persi nel labirinto della mente umana con Eugenio Scalfari

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Nel libro “Il labirinto”, pubblicato una prima volta nel 1998 e ora riedito con un capitolo introduttivo da Eugenio Scalfari, il novantaduenne fondatore ed ex direttore dell’”Espresso” e di “Repubblica”, i settantadue componenti dell’eccentrica famiglia Gualdo trascorrono immobili la vita in un’immensa casa-labirinto, aggrappati alla propria natura, unico appiglio per non smarrirsi tra quelle pareti; solo Andrea, dopo la morte del nonno, abbandona la casa per esplorare il mondo, giungendo in un paese supertecnologico, dove la gente, consumata dalla fretta, ha perso il piacere di vivere ed è governata da una Rete, che risolve ogni problema. Si tratta di un mondo del tutto opposto a quello in cui Andrea è cresciuto, ma dove in alcuni abitanti domina la medesima urgenza avvertita dal giovane di trovare una via d’uscita e sottrarsi così al proprio destino.

L’immagine dell’imponente e bizzarra casa dei Gualdo, costituita da “un intrico insensato di spazi semibui, sale luminose, corridoi, scalette, ballatoi, passaggi, abbaini, cantine e soffitte aggomitolate in disordine”, è il concreto simbolo del labirinto di passioni, desideri e speranze in cui gli uomini vivono, amano e muoiono.

L’autore stesso, nel capitolo introduttivo, spiega che la contraddizione è l’essenza del labirinto ed è anche la ragione che ci impedisce di uscirne: “il mito del labirinto è quello che meglio descrive la condizione umana, tutti noi viviamo dentro un labirinto e non c’è filo di Arianna che riesca a farcene uscire. Esso non è altro che il groviglio di contraddizioni che vive dentro di noi, che alimentano la nostra vita e danno a ciascuno di noi un destino che non sta scritto da nessuna parte”.

Il romanzo è ambientato ai primi del Novecento, ma il tempo storico non conta, contano piuttosto e soltanto l’interiorità dei personaggi e la simbologia di cui sono connotati. Tutti i Gualdo sono divisi in due schiere: “coloro i cui occhi sono rivolti all’interno e soltanto di sfuggita guardano al di fuori di sé, ma con disinteresse e quelli sensibilissimi alle percezioni provenienti dal mondo, invasi dalle sollecitazioni esterne, che suscitano in loro reazioni subitanee quanto e effimere, che raramente riescono a trasformare in sentimenti duraturi”. A questi ultimi appartiene senz’altro Cortese, il capostipite della famiglia, amante della vita, delle donne e della natura, colmo, ancora, nonostante l’età avanzata, di desideri; egli è l’esatto opposto dell’amato figlio Stefano, un uomo introverso e solitario, che ama intrattenersi solo “con la mente e le sue immaginazioni”. Il nipote Andrea, l’unico che riunisce in sé entrambe le attitudini, capace di leggersi dentro, ma anche di percepire il mondo esterno con immediatezza ed emotività dopo la morte del nonno, è l’unico che, come s’è detto, abbandona la casa, per cercare di sottrarsi all’immobile e soffocante clima familiare, ma, sebbene giunga in un paese, diametralmente opposto all’universo di Gualdo, scopre, ben presto, che il labirinto è dentro di noi e che quindi è impossibile uscirne.

La morte è l’altro tema centrale del romanzo: raccontata attraverso un sogno-presagio da uno dei personaggi, all’inizio del libro, è protagonista assoluta nel capitolo intitolato “La Regina”, in cui si racconta come il patriarca Cortese voglia per sé una morte “diversa dalle altre, perché soltanto sua”: egli si prepara, così, all’incontro con la Regina, vestito di gala, insieme a tutta la famiglia in festa. Nel capitolo finale, la morte è affrontata anche da Stefano, ma in modo diametralmente opposto a quella del padre: egli si ritira in una casetta isolata e disadorna, portando con sé soltanto il figlio Daniele, detto il matto, da cui vuole imparare lo stupore infantile per le cose e la semplicità di una vita senza schemi, per cercare di distruggere il proprio Io con la sua superbia e il suo potere creativo, che non gli permette di accettare la fine. Stefano, consapevole di non aver vissuto a pieno, perché prigioniero della propria sterile razionalità, sopraffatto dai desideri che ormai non potrà più realizzare, affida la casa e i suoi abitanti a Renato, capo dei Lunatici, una brigata di saltimbanchi giramondo, che vivono liberi e privi di condizionamenti, perché essi possano contribuire a costruire per i Gualdo un progetto di vita diverso, “aprendo le porte del castello senza che la gente che lo ha abitato si disperda nel nulla”.

Il romanzo con cui Scalfari cerca di rappresentare l’intensità del rapporto dell’uomo con la vita e con la morte, è denso di citazioni dotte, di riferimenti al mito e di richiami filosofici e letterari, alcuni più espliciti, altri più sottili e velati, ma la scrittura è semplice e lineare, la trama ha la leggerezza di una favola e, soprattutto, nella prima parte, il libro risulta molto suggestivo e coinvolgente.

Martina Deplano – Giorgia Pollero

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