Un inno alla vita: recensione a “Room”

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Room” (Irlanda – Canada; 2015)

Regia: Lenny Abrahamson

Soggetto e sceneggiatura: Emma Donoghue

Produttore: Ed Guiney, David Gross

Produttore esecutivo: Andrew Lowe, Emma Donoghue, Jesse Shapira, Jeff Arkuss, David Kosse, Rose Garnett, Tessa Ross

Fotografia: Danny Cohen

Musiche: Stephen Rennicks

Scenografia: Ethan Tobman

Costumi: Lea Carlson

Cast: Brie Larson (Joy ‘Ma’ Newsome); Jacob Tremblay (Jack Newsome); Joan Allen (Nancy Newsome); Tom McCamus (Leo); William H. Macy (Robert Newsome); Sean Bridgers (Old Nick)

Sono nel mondo da 37 ore e ho visto finestre, tantissime macchine, uccelli e nonno e nonna”. Questa frase può sembrare strana, ma Jack (Jacob Tremblay) inizia proprio così la scoperta del mondo.

L’artefice della frase è un bambino di appena cinque anni, il quale vive insieme alla madre, chiamata da lui Ma (Brie Larson), in una stanza di 3 metri x 3 senza finestre e con la porta chiusa da un codice. L’unica fonte di luce è un lucernaio da dove il bambino può vedere una parte di cielo, che naturalmente pensa sia l’unica esistente. Questa triste situazione comincia quando Joy Newsome, all’età di diciassette anni, mentre sta tornando a casa, viene ingannata da un uomo e rapita. Da questo momento in poi, la sua prigionia dura sette anni, cinque dei quali condivisi con suo figlio. Per proteggerlo, gli fa credere che tutto il mondo sia quella stanza e che gli oggetti, portati da Nick (Sean Bridgers), vengano dalla televisione. Inoltre, per salvaguardarlo dalla loro difficile condizione e dalle continue violenze subite, durante la notte, quando viene regolarmente visitata dal rapitore, nasconde il bimbo nell’armadio.

Il “cast” di questo film è composto da attori di notevole calibro e che hanno saputo al meglio impersonare questi difficili ruoli, rispecchiando bene la realtà emotiva dei personaggi: la Larson, che pure è nata nel 1989, ha già un’invidiabile carriera alle spalle sia in televisione (dove ha debuttato al “The Tonight Show” nel 1998 ed è stata un “recurrent” in “United States of Tara”) sia al cinema (dove ha partecipato alla commedia “Hoot” del 2006 e al bel film del 2010 “Lo stravagante mondo di Greenberg”), anche se il vero successo è arrivato proprio con “Room”, per il quale ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Golden Globe per la migliore attrice drammatica, il BAFTA per la migliore protagonista, uno “Screen Actors Guild Award” e, “last but not least”, l’Oscar, alla sua prima “nomination”; suo nonno nel film è il versatilissimo William H.Macy, interprete di alcuni dei più bei film della vecchia Hollywood, tra cui “Benny & Joon”, “Il cliente”, “L’isola dell’ingiustizia – Alcatraz” e “Fargo”, per il quale è stato anche nominato come miglior attore non protagonista alla premiazione degli Oscar del 1997, ora piuttosto famoso in Italia per alcuni ruoli in serie televisive, come quello del dottor Morgenstein in “E.R. – Medici in prima linea” e quello, più controverso, del ribelle padre di “Shameless”; anche la più giovane Joan Allen, che nel film ha il ruolo della nonna, è un’attrice di prim’ordine, candidata tre volte agli Oscar (“Gli intrighi del potere”, 1995; “La seduzione del male”, 1996; “The Contender”, 2000) e protagonista di “Tempesta di ghiaccio” (1997), di “Face/ Off – Due facce di un assassino” (1997), di “Pleasantville” (1998), dell’intera sagra di “The Bourne” (2004-2012) e, infine, di “Litigi d’amore” (2005).

L’attenta regia è a cura del genio dublinese di Lenny Habrahamson, che ha debuttato nel 2004 con la controversa storia di due eroinomani “Adam & Paul”, s’è confermato successivamente con “Garage” (2007), pluripremiato a diversi festival tra cui quelli di Cannes e di Torino, “What Richard did” (2012) e “Frank” (2014).

Nel suo genere “Room” rappresenta un passo in avanti rispetto alle prove precedenti, che sono sembrate più acerbe e meno corali, in genere legate ad un protagonista, intorno al quale gli altri personaggi erano più o meno solo comparse. In questo caso, la scelta di comprimari di grande livello è stata vincente: ne viene fuori una storia densa di significato, che insegna ad apprezzare anche le “piccole cose” che spesso si danno per scontate.

Qualche volta, le scene celano un significato doppio: quando il piccolo riesce finalmente a fuggire dalla stanza che l’ha visto prigioniero inconsapevole per tanto tempo, non è solo il momento in cui egli comprende cosa significano parole come libertà e coraggio – è come se stesse “rinascendo” ad una nuova vita e i suoi occhi ancora deboli, abbagliati dalla luce accecante del sole, sembrano proprio quelli socchiusi di un bambino appena nato. Molto commuovente è l’attaccamento del bambino alla madre e viceversa: Jack rappresenta l’unica ragione di vita per Ma, mentre quest’ultima costituisce l’unico affetto da lui conosciuto. Attraverso questo forte legame si capisce come mai egli rinunci ai suoi lunghi capelli (simbolicamente la sua forza) per donarli alla madre dopo che ha provato a suicidarsi.

Ognuno dovrebbe trarre da questo film come insegnamento quello che la vita è sempre bella, anche quando essa viene sconvolta da avvenimenti orribili che sembrano distruggere ogni felicità.

Anna Abate – Elisa Oliveri

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